HOME



Farfalle


          di Stefano Borghi


“Guarda che spettacolo” dice Chenda, posando il secchio colmo di pesce ancora guizzante pescato al fiume.
Mentre guarda all’insù si leva il copricapo e con un fazzoletto rosso si asciuga il sudore.
Il cielo è pieno di farfalle.
Non sono certo una rarità da queste parti, ma in questa stagione diventano migliaia.

Chenda è mia sorella; mi metto al suo fianco e osservo anch’io. Il cielo è oscurato da una miriade di puntini colorati, ce ne sono davvero tante e di tutti i colori.
Grosse farfalle Monarca dalle ali arancio e nero ricoprono completamente alberi di Jacaranda e i loro fiori color lavanda per deporre le uova; altre, più piccole e color turchese, volano radenti ai prati, in un movimento irregolare e incessante.
Ve ne sono alcune enormi, con trame gialle che spiccano sulle grandi ali.
Non è la prima volta che vedo uno spettacolo così, ma non posso fare a meno di restarne rapito e, anche se il sole picchia forte e il caldo umido che genera ti appiccica i vestiti alla pelle, resto volentieri immobile, a farmi cuocere il cervello in mezzo al sentiero che non ha riparo dal sole, pur di osservare questa meraviglia.

Chenda guarda senza dire una parola, poi riprende il suo carico e si rimette in marcia con la testa bassa.
Mi metto in marcia anch’io senza dire nulla, non sarebbe il momento; so a cosa pensa Chenda.
Pensa a Sov, il suo bimbo, mio nipote, scomparso a soli sei anni.

Sov era quel che si dice un bel bambino. Sorriso che ti compra e occhi che sanno farsi perdonare qualsiasi cosa.
Aveva solo sei anni quando accade il fatto ed era un giorno come questo.
Uno di quei giorni dove in cielo ci sono milioni di farfalle.

Sov aveva un’autentica passione per le farfalle; ne aveva fatte a decine, ritagliandole da fogli di carta colorata, e le aveva appese vicino al suo letto.
Uno dei suoi passatempi preferiti era rincorrerle.
Correva per ore e come facessero quelle sue gambette esili come stuzzicadenti a sorreggerlo per così tanto tempo era un mistero.
Aveva imparato a stare fermo immobile, in mezzo ai fiori; anzi, ne raccoglieva alcuni e le farfalle finivano per posarsi su di lui. Gli camminavano sulle braccia, sul volto, solleticandolo con le loro zampette. Quando accadeva era il bambino più felice del mondo e alla sera non faceva altro che raccontare ai suoi genitori e al fratello quante farfalle aveva avuto addosso e come le aveva chiamate.
Era incredibile, Sov.

Per quanto le desiderasse, si limitava a catturarle con un retino e osservarle, per poi lasciarle andare.
Il nonno gli aveva spiegato che, se avesse toccato le ali, le avrebbe danneggiate irrimediabilmente e sarebbero potute morire.
Il piccolo si guardava bene dal farlo.
La farfalla che trovò in un prato quel giorno, però, era a terra, come morta; non si muoveva, non volava. Probabilmente il bimbo pensò di prenderla per vedere se poteva fare qualcosa per lei.

Sov non sapeva, non poteva sapere, che quella che aveva tra le mani era una mina.
Ve ne sono moltissime da noi, e molte sono fatte a forma di farfalla; alcuni modelli sono persino colorati.
Vengono lanciate dagli aerei e planano ovunque.
Gli adulti e i ragazzi più grandi non ci cascano più e le evitano, ma i bambini più piccoli…
Non scoppiano subito, nella maggior parte dei casi bisogna raccoglierle e muovere le ali.
Alcuni riescono persino a portarsele a casa o mostrarle ad altri bimbi.

Sov non la mostrò a nessuno: la tenne per sé, e mosse quelle ali.
Probabilmente voleva aiutarla a volare, voleva vederla prendere vita.

Ma non ci fu nulla da fare, né per lui, né per la farfalla.

Ero poco distante quando lo scoppio mi fece saltare il cuore in gola.
In pochi secondi raggiunsi Sov, che si trovava a terra, immobile, avvolto in una nuvola di fumo.
Non aveva più le mani e metà del suo bel viso si era dissolto in una macchia di sangue.
Guardava il cielo dall’unico occhio rimasto e non diceva niente, non si lamentava, non piangeva.
Non lo fece nemmeno quando lo caricammo sul camion, che sobbalzava paurosamente ad ogni buca, sballottandolo qua e là, per una corsa che pareva non avere fine.
Arrivò all’ospedale in condizioni disperate e, quando sua madre parlando e piangendo gli chiese se sentiva male e cosa poteva fare per lui, l’unica cosa che riuscimmo a capire del suo delirio fu la parola farfalla.
Morì poco dopo.
Molti, ricordandolo e prendendo ad esempio altri sopravvissuti, dicono che è stato meglio così: un mutilato semicieco non ha un bel futuro qui da noi.
Quando sento questi discorsi non dico niente, preferisco andarmene.

Sono passati due anni da quel giorno. Ogni volta che sento uno scoppio o vedo una farfalla penso a Sov. Me lo vedo davanti.
Con quel sorriso che ti compra e quegli occhi che sanno farsi perdonare qualsiasi cosa.
Me lo sogno di notte, mi viene incontro senza mani e mi dice “Mi dispiace”.
Mi sveglio che ho i brividi.
Vorrei urlargli di non essere triste, che non è colpa sua, ma la voce mi muore in gola.
Poi non riesco più a prendere sonno.

Oggi è festa, è il compleanno del Re; festeggeremo per tre giorni, come prevede la legge.
Siamo tutti riuniti e per l’occasione le donne hanno preparato un ricco pasto.
C’e carne cotta nel latte di cocco, riso, pesce secco, insalata di mango, frutta e the speziato in abbondanza.
Ho mangiato pochissimo.
Ho promesso a mia sorella che l’avrei accompagnata al cimitero a far visita al piccolo Sov.
Il solo pensiero mi ha chiuso lo stomaco.

Solo adesso, che sono qui, sulla sua tomba, provo un po’ di sollievo.
Da dove si trova credo che possa vederci, che sia contento di trovarci qui e che sorrida.

Sarà perché sui fiori che abbiamo deposto per lui si sono posate decine di farfalle.







leggi qui i commenti


lascia un tuo commento







conlavitaintasca                      idea e realizzazione di           ester margherita barbato                      © 2006 - all rights reserved