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essere jannacci


          di Massimo Legnani


Ahahahahahah..ahahahah..ahahahah.

Dovrei esordire così, con una risata fragorosa, di quelle grasse che il pubblico pretende da uno come me. Ridere e far ridere. Ma non c’è spettacolo stasera, per fortuna sono solo. O forse è proprio questo che disturba, non mi esibisco oggi, né per la gente che ha voglia di applaudire, né per un solo amico con cui bere. Qualcuno o tanti con cui tirare tardi, cantando o dicendo fesserie, pur di tacere quel che bolle dentro. E mi ritrovo pieno di pensieri. È che più invecchio e più si fanno sotto i dubbi, arrivano strisciando al seguito degli ultimi entusiasmi. Vermi voraci i dubbi.

Ha mai capito il pubblico? Si è mai accorto che quando racconto la storia di un balordo e rido, io, poco sopra i denti sventagliati e appena dietro le lenti spesse, ho il luccichio inarrestabile degli occhi? E se non piango è perché ci sono loro che mi guardano, ridi jannacci, pezzi di merda rido, ma voi, voi cosa capite?

Ma in fondo è quel che chiedo, che nessuno vada a grattare sotto la crosta dello scemo, che nessuno soffi via l’allegra cenere da questa brace triste. Così rido per nascondermi, perché mi costerebbe troppo ammettere una malinconia che mi attanaglia e mi vergogna.

Andavo per navigli a sera, facevo notte strimpellando le mie storie davanti a quattro sedie e qualche fiasco presto vuoto; le inventavo sul momento, un po’ per divertirmi, un po’ per far passare il tempo senza crescere. Ma poi si cresce, anche se tieni il piede sopra il freno. Essere dottore! mi dava il capogiro più del vino, una paura il troppo impegno, un gran disagio la faccia sempre seria, meglio cantare a squarciagola parole sciocche un poco ubriache, strizzando l’occhio a qualche tipa mica bella che si commuove tra le gambe, una ogni tanto capita che te la dà, a essere jannacci. Essere dottore, studiare da cardiologo, aveva un certo fascino, però. Mi attirava il tenero tiranno di tenere un’altra vita in pugno, soffiarci dentro a riscaldare un cuore troppo debole e poi schiudere le dita, torna a volare passerotto e magari si trattava di un omone di centoventi chili.

Ancora un passo e chiudo, mi dicevo di continuo, senza sapere se intendessi l’ospedale o il palcoscenico. Poi andavo avanti un altro po’, dividendomi tra riflettori e flebo, canzoni e dopamina. Rinviavo le mie scelte e confondevo la passione col lavoro. Ma qual era diventata la passione, quale il lavoro?

Così per anni ho fatto l’asino a Milano, incerto tra la paglia e il fieno.

Intanto vado avanti, mi dicevo, e son rimasto fermo al palo o poco oltre, che io non ho sfondato col fonendo e tantomeno col microfono. “Sì, jannacci non è male, ma è tutto lì, vuoi mettere Deandrè, Guccini, Fossati o Degregori?” Quanto al cardiologo, basta guardare il sopracciglio inorridito del primario quando si degna di parlarmi.

E stasera ho pure il dubbio di aver sbagliato tutto, che nella vita riesce chi sa puntare su un unico bersaglio, centrandolo alla grande. Eppure son contento di non aver saputo scegliere, come dovessi ancora crescere. Così mi sembra di poter salire ancora qualche piolo della scala che sta sul letamaio; questo salire non mi ha portato in alto, ma mi ha tenuto fuori dalla merda.

E poi una cosa ancora l’ho da fare, che finalmente unisca il mio lavoro alla passione.

Domani, un giorno o l’altro, andrò con la chitarra in Terapia Intensiva e in mezzo al cerchio dei letti gravi taciterò i monitor e arresterò le flebo, per qualche istante almeno. E nel silenzio di quegli occhi moribondi mi metterò scarpe da tennis, imiterò l’armando, farò il buffone insomma, intonando le canzoni, le mie più stupide, quelle più allegre.

Fino a vedere timidi sorrisi levarsi da quei letti e dare un senso al mio ultimo cantare che voglia di piangere ho.

[29/03/2008]





da: www.bramarte.it




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